Il bosco delle fate ovvero come smettere di mangiare carne e non sentirsi vegetariani

Martedì, tardo autunno dell’anno scorso. Ritiro le analisi mediche. Valori altissimi di colesterolo e trigliceridi. Non mi sento per nulla sereno e mi concedo un momento di riflessione. Sto varcando la soglia dei cinquant’anni. Attività fisica a livelli ridicoli, in pratica zero. Professione stressante. Nulla di strano, rappresento il modello tipo del cittadino urbano dell’età di mezzo, devoto al cibo ingurgitato per strada a mezzogiorno, preferibilmente salumi e trippe. La sera per lo più pasta. Zero movimento, troppe sigarette e chili in sovrappeso. Porca vacca, è l’ora di cambiare, penso tra me e me. Una collezione di parenti stretti passati al mondo dei più per problemi di cuore, si trasforma in strizza, proiezione in Blu Ray della paura personalizzata. Un film che solo dieci anni fa non mi sarei immaginato di vedere. Ai trenta e quaranta ci si sente ancora forti, in grado di mangiare mezzo mondo a pranzo e l’altra metà a cena, in surplace. Il periodo del risparmio energetico è ancora lontano; a quell’età s’impegna tutto il corpo in attività lodevoli, ma a scarso rendimento futuro. Una specie di ‘finanza derivata’ della salute, lo Swap dell’amor proprio. Ora, invece, i problemi li senti tutti, uno dopo l’altro, nel fisico e nella penombra dell’età che avanza. Muscoli indolenziti, fiacca mattutina, una leggera asma che, però, martella bene al momento giusto. Per non parlare di quella pancetta che rimanda immediatamente alle attività usuranti della mandibola e dell’apparato digestivo. E’ ora di correre ai ripari, mi dico.

Location: Firenze, manifestazione Terra Futura alla Fortezza, mese di maggio. Incontro Majid nel suo stand nel solito posto. Due chiacchiere al volo. Majid mi chiede se mi va di scrivere qualcosa per Re Nudo. Ovvio che sì, gli dico, ma su cosa? Gli propongo un’analisi sull’ecologismo di maniera, sulla Green Economy. E’ roba che tira, perbacco. Lui mi guarda un po’ così, come dire: ma è anche roba che scrivono tutti. Re Nudo è altro. Beh, senti Majid da qualche mese non mangio più carne e grassi animali, e ho ripreso in mano il mio fisico. Guarda che è stato un processo di trasformazione molto duro. Ecco, dice lui, perfetto, qualcosa che ti nasce dentro…

In ogni articolo che si rispetti, dicono sia doveroso ricorrere all’altrui pensiero per introdurre l’argomento, quando l’elemento del vissuto e della personalizzazione è troppo vicino all’autore, insomma quando ci si sente troppo coinvolti. Che cosa voglio dire? E’ vero, non mangio più carne, ma mi è veramente difficile collocare questa mia scelta nell’ambito dell’etica o della filosofia militante di una qualsiasi delle famiglie del vegetarianismo. Rispetto, stimo e lodo i vegetariani, ma non sono fatto di quella pasta. Io, semplicemente, non mangio più carne. Punto. E cammino. Carissimi miei quindici lettori, non cadete nel facile tranello del fraintendimento. Non cerco una via diversa dall’attuale se non nell’ambito degli immediati miglioramenti della mia salute: una scelta egoistica. Anche se, è ovvio, la sola idea di non dare più soldi agli orrori dell’allevamento industriale mi soddisfa, mi rende orgoglioso. Un sentimento anche politico, come cercherò di spiegare, ma non etico. Ho dato un veloce sguardo all’ultimo libro di Jonathan Safran Foer, “Eating Animals”, e non nego che le descrizioni sugli allevamenti mi hanno lasciato basito: le condizioni di vita portano gli animali a “deformità, cecità, infezioni batteriche alle ossa, paralisi vertebrale, emorragie interne, sistema immunitario indebolito”. I bovini al macello a volte non sono storditi abbastanza e di conseguenza vengono “dissanguati, scuoiati e smembrati mentre sono ancora coscienti”. Qualcuno potrebbe obiettare: ma dovevi aspettare di leggere il libro di Foer per accorgertene?

Da un po’ di tempo ripeto a me stesso e alla mia compagna che nel nostro Paese, ma in generale nel cosiddetto mondo industrializzato, non si ha più il coraggio di scendere in piazza e incazzarsi. Come se, giorno dopo giorno, una sapiente lobotomia avesse spento il desiderio di voler cambiare il mondo. Non rivolgo ora il mio pensiero allo squallido pianeta dei mattatoi seriali, non solo. E’ regola, ormai consuetudinaria, voltare la faccia, non guardare più i fatti della società che ci circonda. Sono spariti sentimenti come indignazione e rabbia. La lotta politica è ridotta a qualche manifestazione di piazza, a metà strada tra il folklore e la furbizia del mestatore di turno. Un tempo, millenni fa, si scendeva nelle piazze e si lottava per argomenti che oggi farebbero parte del Museo dei Grulli, se esistesse. Quasi ci si vergogna se qualche volta ci accorgiamo di provare ancora indignazione. Viviamo nel paese dei Furbi, di una classe politica che pensa solo a fare affari. Ci arrabbiamo? Poco. Varie vicende internazionali dovrebbero avere almeno il merito di modificare lo status quo della nostra pigrizia. Niente. Tutto passa, tutto accade: ogni volta che leggendo un giornale o guardando i notiziari televisivi, si mostra agli occhi la notizia che fa scattare la rabbia, il mostro che è dentro di noi subito ci sussurra di stare buoni, che non è il momento, ma che questo arriverà. Prima o poi. Già, ma quando?

Sappiamo solo che la Crisi, ‘sta maledetta Crisi Globale, avanza e non lascia scampo. Come inebetiti lasciamo che la Crisi manometta le coscienze e ci induca al silenzio collettivo, alla condivisione del danno. Una scelta complice e demente, di quelle che irrompono la notte nei sogni leggeri, trasformando la sollecitazione tardiva del sonno in incubo. Ecco, quando si arriva a questo punto, cribbio, non rimane che soddisfarsi con e nel Privato. Una volta, tanti anni fa, si sosteneva, anzi si teorizzava, che il Privato non è Pubblico, mentre il Personale è sempre Politico. Gran belle parole, che rimandano a scelte di vita che anche io feci a suo tempo (quando il fisico poteva sostenere l’impegno, s’intende). Era l’epoca dell’impegno. La necessità di sentirsi vivi per capire se fosse il mondo a non piacerti, oppure avesse ragione un tizio che soleva ammonire, alzando il dito con levantina quanto fiacca diffidenza nelle capacità italiane (ma in definitiva anche umane): “Non fate nulla. Nulla. E se proprio non ce la fate a non fare assolutamente niente, allora fate pochissimo”.

In fondo, le ragioni della mia scelta di non mangiare più carne e di non prendere più mezzi pubblici e privati per muovermi in città, è tutta qui. Nella stringente logica della ribellione e del Privato. Henry David Thoreu scrisse: “Colui che ha la mente a riposo possiede tutte le ricchezze. Non altrettanto colui che ha il piede in una scarpa e cammina come se tutta la superficie della terra fosse ricoperta di cuoio”. Il Privato rimane, alla conta finale, l’unica scelta di ribellione pura e cristallina che permette di tracciare un perimetro decente alla volontà inesaudita di cambiare il corso del tempo. Oggi troviamo saldate in un unico blocco la fatalità e la fatuità. Il nome delle fate, eredi delle ninfe, deriva dai Fata, le tre Parche, e da certe oscure divinità dette Fatue. Ebbene, allorché dal tempo delle necessità collettive non si alza più di tanto il dito della condanna, il mondo del Privato lentamente ha sostituito quello Politico. E’ dentro di noi, solo dentro di noi, che la scelta come quella di non mangiare la carne, va oltre al dato salutista o etico. Una scelta che ha assorbito, per una dinamica insospettabile di sussidiarietà, il significato Politico a tutti gli effetti. Significa, infatti, anche riprendere in mano l’alfabeto del dissenso, e modificare la grammatica della fatuità. Camminare, per esempio, consente di percepire la realtà con tutti i sensi, di farne pienamente esperienza lasciando a noi per primi l’iniziativa. Non avvantaggia unicamente lo sguardo, a differenza del treno o dell’auto, che istituiscono la distanza dal mondo e la passività dal corpo. Si cammina per nessun motivo, per il piacere di gustare il tempo che passa, di concedersi una deviazione per meglio ritrovarsi alla fine del cammino, per scoprire luoghi e volti sconosciuti. Anche solamente per rispondere all’invito della strada.

Ecco, la mia scelta, originata dalla strizza e dai Lari della casa che guardano sospetti, poggia invece sul lato più affidabile della mia incoerente personalità. Un dovere che porto nei confronti degli altri, ma che modifica il senso di appartenenza a una società che non mi piace per niente. Non mi piacciono gli allevamenti industriali, l’inflazione e la povertà, la politica degli affari, la disoccupazione, le crisi internazionali, gli attentati dei terroristi, le guerre asimmetriche, il fanatismo religioso, il massacro dei diritti umani, il non rispetto delle libertà individuali, l’esportazione della democrazia, l’ambiente devastato, i rifiuti smaltiti illegalmente. Non mi piace un mondo che non ha più la capacità di indignarsi. I fatti e gli eventi che passano riproducono come in un film l’acqua che scorre perennemente, senza sosta, senza mai fermarsi, dissetando, rinfrescando, fecondando. E qui potremmo discettare a lungo sullo straordinario significato dello scorrere dell’acqua e degli eventi, del fascino indicibile che deriva dalla visione di un elemento che c’è e subito dopo non è più lo stesso e mai più lo sarà, ma che continuerà a esserci in eterno; a partire, magari, dal famoso frammento di Eraclito per cui non si può scendere due volte nello stesso fiume. Detto questo, dobbiamo ora incamminarci –è il caso di dirlo con forza- verso la parte conclusiva di questo strano viaggio interiore, dove si è voluto confondere il Privato con il Pubblico, e dove, come abbiamo capito, tutto è Politico.

Il cambio di “stile di vita” (concetto strano, ma così vuole la vulgata salutista) alla fine ha prodotto qualche risultato. Dopo alcuni mesi di dieta vegetariana e tante camminate per le strade di Firenze, alcuni chili in meno, muscoli più tonici e respiro sotto controllo, sono l’immediato e visibile successo di questa personale strategia di contenimento della pigrizia. Mi hanno aiutato un simpatico contapassi e la scoperta di nuove ricette in cucina. Le spezie asiatiche sostituiscono gli intingoli a base di carne. Frutta e verdura hanno vinto su tutto. Abolite le colazioni al bar, la città mi si è aperta alla scoperta delle difficoltà quotidiane del camminare. Il Pedone è senza dubbio la tribù urbana più trascurata dalle amministrazioni comunali: smog, marciapiedi dissestati e strisce pedonali trabocchetto sono solo alcuni dei problemi, forse i più urgenti, nelle città modellate a misura di ruota gommata dai Piani Strutturali. La città policentrica è ancora un sogno di là da venire e persino i ciclisti sono più tutelati dell’umile pedone, un vero cassaintegrato delle società urbane. Il tragitto è ancora lungo, ma almeno il primo passo è compiuto.

Piccole o grandi che siano, le ferite sono all’ordine del giorno, per i camminatori. Nikos Kazantzakis, l’autore di “Zorba il greco”, è talmente sconvolto per la gioia di trovarsi in cammino sulle strade italiane che, in una sorta di cura omeopatica per ipotetici guai futuri, decide sorprendentemente di infliggersi un rimedio doloroso: “Ero così felice a Firenze, che ho capito che era più di quanto spettasse di diritto a un essere umano, e quindi bisognava trovare il modo di soffrire. Perciò mi comprai delle scarpe che mi stavano strette. Le mettevo la mattina, e mi facevano così male che non riuscivo a camminare e saltellavo come un passero. Per tutta la mattina, fino a mezzogiorno, mi sentivo infelice; ma nel pomeriggio che felicità, quando mi cambiavo le scarpe e uscivo a passeggiare. Camminavo leggero, mi sembrava di prendere il volo”. Il bosco delle fate è sempre in agguato, per condurci ai limiti della felicità, e darci una bella lezione, come quella che si auto infliggeva il nostro scrittore greco. Da quando mondo è mondo, il lato lucente della felicità (ricordiamoci: del Privato che si trasforma in Politico) è anche quello che ci conduce a volere con forza una società diversa. E una personalissima salute migliore. Se ci impediscono di percorrere un punto, una città, vuol dire che, come i carcerati di oggi, ci hanno lasciato l’universo intero. L’immensità e l’eternità rispondono sempre ai nostri comandi. Non mangiare carne, non significa quindi essere solo vegetariani, camminare senza prendere mezzi pubblici e privati non significa solo essere viandanti. La dimensione etica è personale, come sempre accade nelle terre di mezzo, sconfitta oggi dal Privato. Nel Privato l’etica, infatti, perde il confronto: la dimensione dinamica del suo esistere è guardare oltre il velo della Fatuità dell’oggi. Guardare oltre il velo vuol dire, insomma, cercare Dafne, figlia di Ladone e della Terra, in un alloro, sentirsi nel mare come nel proprio Principio, lasciare che il proprio cuore danzi con le giunchiglie, morire per non dimenticare le stelle, ritenersi figlio del bosco, accettare che il sole, al tramonto, posi un raggio di luce dorata sulla nostra spalla e ci riconduca a casa. E se permettete, anche sperare in un abbassamento repentino del colesterolo e dei trigliceridi.